giovedì 23 dicembre 2010

In esclusiva Elio Germano: "Dopo Cannes tornerò a teatro con Thom Pain"


di Ersilia Crisci

Elio Germano torna alla sua passione del liceo, il teatro. Reduce dal successo del Festival di Cannes, il giovane attore si concede una tournée portando in scena in tutta Italia dal 20 luglio il monologo di Will Eno “Thom Pain (basato sul niente)”, di cui curerà anche la regia. Elio, infatti, dopo il debutto sugli schermi a soli dodici anni come protagonista del film “Ci hai rotto papà” (1992) di Castellano e Pipolo, durante il liceo studia recitazione teatrale presso il Teatro dei Cocci a Testaccio con Isabella del Bianco e Cristiano Censi, perché, ha rivelato in passato, per lui che era silenzioso e poco comunicativo era liberatorio esprimersi sul palco. A diciotto anni fu scritturato da Giancarlo Cobelli per una tournée, ma contemporaneamente i Vanzina lo vollero come protagonista del loro “Il cielo in una stanza” (1999). Da quel momento è cominciata la sua carriera cinematografica, che gli ha fatto conquistare l’affetto e la stima del pubblico e numerosi premi e riconoscimenti (tra cui, nel 2007, il Premio David di Donatello come Migliore Attore protagonista per “Mio fratello è figlio unico” di Daniele Luchetti, e il recente Premio Miglior Attore protagonista al Festival di Cannes con “La nostra vita”, sempre di Luchetti). A quanto pare, la passione per il teatro non l’ha mai persa, e tornerà a calcare le scene con un’opera per la prima volta rappresentata in Italia, che è stata finalista nel 2005 del Premio Pulitzer per la Drammaturgia.
Nonostante il successo, Elio Germano resta un ragazzo cordiale e disponibile, non si monta la testa e fugge qualsiasi forma di divismo, che vanta tra le sue innumerevoli virtù quelle (ormai piuttosto rare) della modestia e della signorilità, che lo fanno definire “l’antidivo di Corviale”.

Dopo tredici anni, il Premio Miglior Attore torna in Italia. Cosa pensi che la Giuria abbia riconosciuto in te?

Elio Germano: In realtà, per come funziona il Festival di Cannes, i premi sono tutti vinti dal film. Dopo che vengono assegnati i premi maggiori, sono assegnati via via anche tutti gli altri, ma sempre per premiare il film, come riconoscimento del suo successo.

Cosa hai provato a ricevere il premio?

E. G.: Ovviamente mi ha fatto molto piacere, ma il vero premio era già di essere in concorso a Cannes. Per un film è già questa una vittoria, perché il Festival garantisce una vetrina internazionale, verrà visto in tutto il mondo, cosa che dà un enorme sostegno alla distribuzione.

Com’è la situazione adesso con la classe politica dopo la tua dedica “agli italiani che sono migliori della loro classe dirigente”?

E. G.: Penso che una dichiarazione di un attore durante una cerimonia di premiazione non abbia la possibilità di modificare le situazioni (dalla sua voce traspare, suo malgrado, una nota di fastidio, ma è sempre cortese, ndr). Non può né migliorare né peggiorare niente. La vera politica si fa in altri luoghi.

In questi giorni sei andato a dare il tuo sostegno ai giovani che protestano al Centro Sperimentale di Cinematografia.

E. G.: Sì, insieme ad altri colleghi ho sentito di dare il mio plauso ai giovani del Centro Sperimentale più che altro per il loro senso di partecipazione civile. Sono dei giovani che si impegnano per migliorare l’ambiente in cui eserciteranno le loro professioni, e lo spirito di partecipazione civile e sociale apre al dialogo e rende un paese più democratico. Anche da parte delle istituzioni dovrebbe avvenire lo stesso.

Che programmi hai per il futuro?

E. G.: Ho diversi progetti di lavoro, il più vicino è un monologo teatrale intitolato “Thom Pain, basato su niente”, di Will Eno, con cui andrò in tournée in tutta Italia dal 20 luglio. Farò qualche data estiva e poi lo riprenderò a settembre e ottobre.

Di cosa si tratta?

E. G.: E’ un monologo in cui un uomo, che è stato trascurato dai genitori durante l’infanzia, racconta dei ricordi della sua vita. Da adulto, è un affascinante e scapigliato insegnante che ammalia i suoi studenti con la sua ironia e passione.

Chi farà la regia?

E. G.: Curerò io la regia, e l’aiuto regista sarà Silvio Peroni.

Cosa diresti ai giovani attori, per i quali sei diventato un punto di riferimento?

E. G.: Mah, gli direi di non avere punti di riferimento! Bisogna essere concentrati su se stessi e non imitare gli altri, e darsi molto da fare perché le cose non piovono e non pioveranno mai dal cielo.

Qui di seguito in anteprima le date della tournée italiana di Elio Germano con “Thom Pain (basato sul niente)” stabilite fino ad ottobre. La tournée riprenderà con date da definire a gennaio 2011.

20 luglio: Mittlefest, Cividale del Friuli (UD)
22 luglio: Festival dei poeti, Teatro di Nora (CA)
25 luglio: Festival di Calamandrana, Calamandrana (AT)
1 settembre: Settembre al Borgo-Teatro della Torre, Caserta
4 settembre: ARS AMANDO 2010, Amandola (Fermo)
2 ottobre: Teatro Bonci- La Notte della Cultura, Cesena (FC)



(Pubblicata il 12 giugno 2010 su recensito.net)

Una chiaccherata con Pier Francesco Aiello, distributore di "About Elly"


di Ersilia Crisci

Il 18 giugno arriva nelle sale italiane About Elly, quarto film del regista iraniano Asghar Farhadi, vincitore dell’Orso d’Argento per la Migliore Regia al 59° Festival Internazionale di Berlino e del Best Narrative Feature al Tribeca Film Festival 2009. In Italia il film è distribuito, insieme a Open Gate e Mediaplex, dalla P. F. A. Films. La casa di produzione e distribuzione di film, serie televisive e documentari a livello nazionale e internazionale è stata fondata nel 1991 da Pier Francesco Aiello, ex attore che ha recitato in film di registi quali Michelangelo Antonioni (“Identificazione di una donna”, 1982) e Federico Fellini (“Ginger e Fred”, 1986). Ho intervistato Aiello in occasione dell’uscita del film nelle sale.

In questi giorni About Elly uscirà nelle sale. Come siete arrivati a distribuirlo?

Pier Francesco Aiello: About Elly uscirà in venti copie, che sono un buon numero. L’abbiamo visto a Berlino nel 2009, siamo stati subito entusiasti del film e abbiamo fatto una proposta per acquistarlo. Anche altre società erano interessate, ma alla fine ha prevalso la nostra, più che altro perché avevano fiducia nel nostro modo di lavorare.

La P. F. A Films distribuisce la pellicola insieme ad altre due società, come è nato il connubio?

P. F. A.: Inizialmente c’è stata una collaborazione con la Open Gate, che è una società che si occupa di pubbliche relazioni ma che si voleva espandere nel settore cinematografico. La parte più difficile era la distribuzione, di cui mi sono da principio occupato da solo, così in un secondo momento è subentrata la Multiplex. Da quel momento abbiamo lavorato tutti e tre insieme.

About Elly sta facendo parlare di sé?

P. F. A.: Sì, siamo molto soddisfatti, in questi giorni sia Repubblica che il Corriere della Sera hanno dedicato interi paginoni al film, sono stati fatti numerosi servizi nei tg nazionali.

Come definirebbe il film diretto da Asghar Farhadi?

P. F. A.: Non è un film “super commerciale”, anzi, è un film di livello autoriale molto alto. Farhadi è stato paragonato a grandi autori, in Iran è considerato non dico il nuovo Kiarostami ma quasi. Ho conosciuto molti professionisti iraniani, vorrebbero tutti lavorare con lui. È un regista molto ambito.

Invece cosa mi dice degli attori?

P. F. A.: Il cast è straordinario. È stato un lavoro corale, tutti hanno dato una grande prova di recitazione. Il film è stato ovviamente doppiato, ma l’interpretazione in lingua originale, anche se non si conosce la lingua, fa capire la bravura degli attori, che nel loro Paese sono molto noti. Golshifteh Farahani, che interpreta Sephideh, ha lavorato con Ridley Scott, e per questo motivo è stata esiliata e adesso vive a Parigi con il marito. Shahab Hosseini, che interpreta Ahmad, è considerato una vera e propria star.

Quali sono le difficoltà che si incontrano in Italia nella distribuzione cinematografica?

P. F. A.: Il film d’autore ha ovviamente un percorso diverso rispetto al film commerciale. Ma il problema comune della distribuzione è quello della strozzatura nell’uscita nelle sale, che tendono a far parte dei circuiti, come i multiplex, in cui vanno film diversi da About Elly. È difficile trovare film d’autore anche nelle sale piccole, che stanno scomparendo. Adesso poi vanno molto di moda i film in 3 D. Le sale, in Italia, sono poche e comunque in mano a pochi circuiti. Siamo anche editori dvd, abbiamo curato delle uscite con la Sony, e il mercato è completamente diverso. È sempre più in crisi perché i film vengono scaricati da Internet, ma quello del dvd è un mercato puro, regolato dalla domanda e dall’offerta. Le sale non funzionano così, con About Elly abbiamo raggiunto ottimi risultati.

Quali film ha acquistato la P. F. A. Film nell’ultimo anno?

P. F. A.: In quest’ultimo abbiamo acquistato un film di Robin Williams, “World’s Greatest Dad”, che noi abbiamo tradotto come “Il papà migliore del mondo”, che ha avuto molto successo al Sundance Festival 2009, “Finding Amanda” con Matthew Broderick, e “Dancing Dreams” con Pina Bausch. È un documentario tedesco realizzato con le riprese dell’ultimo spettacolo che ha fatto prima di morire, il “Teenagers Perform” di “Kontakthof”.

Quali speranze ha per il futuro?

P. F. A: Con About Elly stiamo ricevendo molta attenzione, ovviamente speriamo di incrementare i successi.

(Pubblicata il 18 giuno 2010 su recensito.net)


leggi la recensione del film


Corrado D’Elia: "Vincere il Premio della Critica è stata una bellissima sorpresa"


di Ersilia Crisci

È di questi giorni la notizia che Corrado D’Elia ha vinto il Premio della Critica 2010, che riceverà al Teatro Curci di Barletta il prossimo 5 giugno. Il giovane attore e regista, nonché organizzatore, è ideatore e fondatore del Circuito Teatri Possibili, che nasce nel 1996 come associazione culturale a Milano, per poi diventare il Circuito Teatrale Indipendente, consorziato con teatri di Milano, Torino, Firenze, Genova, Trento, Pisa, L'Aquila, Legnano, Bordighera, Finale Ligure, Loano, Ventimiglia, Sanremo e Imperia e in continua espansione. Curatore di rassegne teatrali e di spettacoli, dal 1998 è il direttore del Teatro Libero Di Milano. Nel giugno del 2002 vince il Premio Hystrio – Provincia di Milano, nel settembre del 2007 fa guadagnare al Teatro Libero il Premio Franco Enriquez per il Teatro per la migliore programmazione teatrale, e nel 2009 viene insignito del Premio Pirandello perché considerato una delle figure più complete nel panorama giovanile del teatro italiano. Corrado D’Elia è in questi giorni in scena al Teatro Belli di Roma con Novecento, monologo di Alessandro Baricco, con un grande riscontro di pubblico e critica.

Teatri Possibili è il tuo progetto che è arrivato al quindicesimo anno di vita, in cosa consiste?

Corrado D’Elia: Teatri Possibili è nato come un progetto che rispondeva al bisogno degli artisti di vivere il teatro. È una rete di teatri che si scambiano esperienze e spettacoli, legato alle città che lo ospitano. Attraverso Teatri Possibili si porta nelle proprie città ciò che altrimenti non arriverebbe.

Qual è, secondo te, il motivo del suo successo?

C. D’E.: L’ambiente del teatro, per le sue dinamiche, è molto chiuso, c’era bisogno per le nuove compagnie di collaborazione per superare le grandi lobby. Forse proprio la sua veste “anarchica” ha portato dell’aria nuova nell’ambiente teatrale, un ambiente in un certo senso “cristallizzato”, come quello di una cattedrale.

Dopo quindici anni è ancora vitale?

C. D’E.: Decisamente sì. Comporta un grande lavoro, ed è un progetto in continua crescita: da due mesi è entrato a farne parte anche il Teatro Vittoria di Roma.

In questo momento sei in scena al Teatro Belli con Novecento, il celebre monologo di Baricco.

C. D’E.: Sì, finalmente! Novecento era già da tre anni in giro per l’Italia, e adesso è arrivato per la prima volta anche a Roma. Sta avendo un grande riscontro, è bellissimo scoprire che c’è un pubblico che ti segue in tutte le fasi dei tuoi lavori, così come successe un paio di anni fa con l’Enrico IV e l’Otello che portai al Teatro Eliseo.

Qual è l’anima del “tuo” Novecento?

C. D’E.: E’ senz’altro la partecipazione emotiva con il personaggio, per restituirlo così com’è al pubblico, che deve emozionarsi. C’è stata a lungo una tendenza della critica e del modo di intendere il teatro che ha portato a snobare l’interpretazione. Come se l’emozione fosse qualcosa di separato dall’estetica, come se fosse qualcosa di “popolare”, mentre l’estetica era considerata “l’intelligentia”. Questa visione ha prodotto negli ultimi quindici anni un teatro apatico. Per me è invece fondamentale la forza dell’interpretazione e la capacità di emozionare il pubblico.

Cosa ti hanno portato questi quindici anni di attività, in cosa sei cresciuto?

C. D’E.: Nel tempo ho sicuramente acquisito sicurezza, nelle idee e nelle scelte di regia. Una cosa è cambiata: prima prediligevo testi con più attori, diciamo un po’ barocchi, mentre adesso mi approccio volentieri a testi più piccoli, come ad esempio La leggenda di Redenta Tiria di Salvatore Ninfoi, che abbiamo portato in scena con la compagnia ad aprile. Novecento è ancora più piccolo, è un monologo, è proprio un regalo che mi sono fatto.

Hai appena vinto il prestigioso Premio della Critica 2010, che ti sarà consegnato a Barletta il 5 giugno. Cosa significa per te questa vittoria?

C. D’E.: E’ stata una bellissima sorpresa, come lo è stato anche l’anno scorso ricevere il Premio Pirandello. Avere l’attenzione della critica e del pubblico, in questo momento così particolare per il teatro, è gratificante e stimolante. È una emozione incredibile sentire che c’è un pubblico che ci segue con grande presenza e passione, è una responsabilità che spinge a continuare a creare e a crescere.

(Pubblicata il 25 maggio 2010 su recensito.net)

Manuela Kustermann: “Per me il teatro è un luogo sacro”


di Ersilia Crisci

Manuela Kustermann debuttò a soli 14 anni, nel 1963, diretta da Carmelo Bene nel ruolo di Ofelia in Amleto di William Shakespeare. Impostasi negli anni sessanta come una delle più grandi attrici di teatro, non ha mai smesso di calcare le scene. Dal 1989 è il direttore artistico del Teatro Vascello di Roma, insieme con il regista e compagno Giancarlo Nanni, scomparso lo scorso gennaio a causa di una malattia.
Dal 7 al 23 maggio il Teatro Vascello ospiterà l’evento “Ero con loro quando loro erano con me. Sui sentieri della letteratura italiana del ‘900”, la prima serie di appuntamenti con la letteratura italiana, commentata da importanti critici e interpretata dalle letture di grandi attori, tra i quali la stessa Kustermann.

In cosa consiste il progetto “Ero con loro quando loro erano con me?”

M. K.: Il progetto nasce perché mi sembra importante in una stagione teatrale proporre autori italiani di questo calibro. Trovo interessante l’aver abbinato le letture degli attori più significativi del panorama attuale all’intervento di importanti critici letterari o poeti che introdurranno e illustreranno le opere. La serata si aprirà nel foyer con un aperitivo, si berrà del vino e si mangerà qualcosa, in seguito il critico introdurrà l’opera e infine ci si sposterà nella sala 2 per ascoltare le letture degli attori.

Quale sarà il prossimo spettacolo che interpreterà?

M. K.: La stagione teatrale a giugno finisce, stiamo preparando lo spettacolo di apertura della prossima, a ottobre. Porteremo in scena il Pilade di Pier Paolo Pasolini, con la regia di Bruno Ventura. Io interpreterò Elettra, e Antonio Piovanelli interpreterà Oreste. È una rilettura interessante di quest’opera, piuttosto originale, un primo indizio è che Elena e Oreste saranno interpretati da noi, che siamo di età più matura, anziché da attori giovani.

Lei ha calcato le scene fin dagli anni sessanta, quali differenze ci sono oggi rispetto al passato?

M. K.: C’è stato un cambiamento, purtroppo non in bene. Prima ci si poteva rapportare ad attori completi, diversi, a cominciare da Carmelo Bene, e come Romolo Valli, Vittorio Gassman. Attori di questo calibro non ce ne sono più. Inoltre per me il teatro era un luogo sacro, oggi invece si è perso questo senso di sacralità. Penso che ci siano delle eccellenze che andrebbero preservate.

Il Vascello si occupa anche di formazione, con l’Accademia italiana d’Arte e Multimedialità. Cosa ne pensa della formazione degli attori oggi, in generale?

M. K.: In generale oggi c’è la tendenza, non negativa di per sé, di formare i ragazzi in senso “totale”, all’americana. Il rischio è però che si dia più spazio al resto senza formare realmente i giovani come “attori”. Tutti aspirano ad entrare ad Amici di Maria De Filippi, per carità, capisco benissimo il valore di vetrina che ha per i ragazzi, ma la recitazione è altro. È qualcosa di molto diverso, è una caratteristica che ti distingue dagli altri.

Cosa consiglia ai giovani?

M. K.: Innanzi tutto è bene capire che non tutti possono fare gli attori. È anche vero che non per forza si deve essere un talento, e che con molto lavoro si può migliorare, ma tutti vogliono fare gli attori nonostante sia difficilissimo sfondare nel mondo dello spettacolo. Ci sono molte altre professionalità nel teatro, che vengono sottovalutate: stanno sparendo, ad esempio, i bravi macchinisti, o gli elettricisti, che sono ruoli importantissimi per un allestimento. Ci sono poi gli uffici stampa, l’organizzazione di eventi… Sono tante le professionalità legate al mondo del teatro.

Da poco è purtroppo scomparso Giancarlo Nanni. Come si sente adesso?

M. K.: Ho le spalle più pesanti. Ho ovviamente più responsabilità, ma non è solo questo. Nanni se n’è andato a un’età relativamente giovane, mi fa soffrire il pensiero che non farò mai più spettacoli come li facevo con lui, non ci sono altri registi come lui. Aveva una visione onirica della scena, idee di composizione e di movimento, straordinarie. Adesso, col senno di poi, mi rendo conto che Il giardino dei ciliegi è stato l’addio di Giancarlo. Spero di realizzare un progetto con la Regione (la giunta è cambiata adesso, ma spero che si porti a termine ugualmente) di fare un grande convegno su di lui, per rendergli omaggio.

Mi può togliere una curiosità? Perché il Teatro Vascello si chiama così?

M. K.: Il teatro è sorto dalla ristrutturazione del cinema che si chiamava così. Giancarlo era greco, amava il mare e le barche, come non si cambia il nome a una barca così non si cambia a un teatro. Il nome Vascello, poi, richiama il mare e la navigazione. Ma è da un po’ che sto pensando a una cosa… Aspetto che la stagione finisca, ma per la prossima penso che gli intitolerò una sala, o forse, conservando comunque il nome Vascello, aggiungerci il suo, per legare la sua memoria al teatro… Non lo so ancora, devo decidere.

(Pubblicata il 7 maggio 2010 su recensito.net)

Franco Oppini: "Il teatro è stato la mia partenza ed è il mio arrivo"


di Ersilia Crisci

Franco Oppini è in questi giorni in scena al Teatro Tenda di Roma con il musical Mi ritorni in mente 2, per la regia di Renato Giordano. Oppini è presente sulla scena dello spettacolo italiano fin dal 1971, quando entro nel gruppo de I Gatti di Vicolo Miracoli, e ha attraversato innumerevoli generi, dal teatro al cabaret, dalla televisione al cinema, senza dimenticare le esperienze di musicista.


Nello spettacolo affermi che da giovane volevi fare la rock star.

F. O.: Sì, non tanto il cantante rock, ma proprio la rock star. Sai, io vengo dall’epoca del beat, sono della generazione che aveva 18 anni nel sessantotto, il periodo della rivoluzione sociale, culturale, politica, ideologica, capelli lunghi, chitarra elettrica, Beatles, Rolling Stones, Jim Morrison, per cui il mito era quello, di fare la rock star. Speravamo tutti di diventarlo. Immagina, un mondo di rock star!

Il tuo nome d’arte sarebbe stato Rocky Maiale.

F. O.: In quella battuta mi rifaccio a un personaggio che interpretai con I Gatti di Vicolo Miracoli, la rock star Rocky Maiale. Ero vestito con una specie di tutina d’oro, tutta scollata, ero una sorta di David Bowie o di Ziggy Stardust. L’ho tirato in ballo perché sono ancora legato a questo personaggio, pensa che una volta sono venuto qui in teatro e ho mostrato a tutti una foto di Rocky Maiale.

Lo spettacolo si rifà alle esperienze della tua adolescenza?

F. O.: Certo, sì, tutte le festine nelle cantine… io stesso avevo una cantina, ce l’ho ancora e ne ho lasciata tutta una parte intatta; ancora adesso è dipinta con dei fiori tipo hippie, nello spettacolo cito un manifesto che è effettivamente ancora lì. In Mi ritorni in mente 2 si parla delle festine in casa, quelle festine in cantina, delle gite scolastiche, dei cinema… In quegli anni si andava al cinema per fare tutt’altro che vedere il film, magari potevi andare allo stesso spettacolo quattro volte perché tanto non lo vedevi mai: al cinema si andava per “broccolare”.

La forza dello spettacolo risiede nella capacità di far ricordare lo spirito degli anni sessanta?

F. O.: Sì, fa molto presa perché ci si ricorda l’epoca… Gli spettatori di teatro sono generalmente un pubblico maturo, che gli anni sessanta e settanta li hanno vissuti, e che li ricordano attraverso il musical. Invece i giovani hanno sempre sentito parlare di questa mitica epoca, loro invece riconoscono quello che i genitori gli hanno raccontato o quello che hanno visto nei film. Ma la forza dello spettacolo sta anche nelle canzoni. Ricordiamoci che in quegli anni si vendevano sette-otto milioni di copie di un 45 giri, quindi ognuno in casa aveva un pezzo di Little Tony, degli Equipe 84 o dei Beatles. Adesso quando un disco vende trenta mila copie è già tanto, non c’è più questa capillarità. Quella musica è la musica che è rimasta e che rimarrà nel tempo.

Fin da giovanissimo hai attraversato il teatro, il cabaret, la televisione, il cinema, la fiction…

F. O.: …L’operetta anche! Ho avuto per due anni una compagnia di operetta, perché un “pazzo” mi disse “tu devi fare l’operetta”, io gli ho detto “ma cos’è? non l’ho mai vista”. Mi portò a vedere una sua operetta, così gli risposi “se mi dai l’orchestra dal vivo e i ballerini ci sto”. Perché ho sempre avuto questo pallino di cantare dal vivo, come con i Gatti e col cabaret.

E quale tra queste esperienze pensi ti rappresenti meglio?

F. O.: Sicuramente il teatro. Anche perché tutto sommato è ancora una delle poche cose serie nello spettacolo rimaste in Italia, devi saperlo fare, bisogna essere preparati, non di rado un fruitore di teatro non segue molto la televisione… Comunque penso che adesso il teatro italiano sia migliore del cinema. Io vengo dal teatro, quello di ricerca, d’avanguardia, degli anni sessanta e settanta, ho conosciuto Perlini, Giancarlo Nanni, Sepe, Kustermann, Carmelo Bene, tutti i grandi, con molti dei quali ho lavorato. Quest’estate farò Molto rumore per nulla di Shakespeare, l’estate scorsa ho interpretato Plauto, in passato anche Molière, Goldoni, le tragedie di Shakespeare (ho fatto anche un Re Liar), in genere alterno cose più leggere a cose più impegnative. Il teatro è stato la mia partenza ed è il mio arrivo.

Come sono oggi i rapporti con gli altri componenti de I Gatti di Vicolo Miracoli?

F. O.: Coi “vicolanti”? Ottimi, perché siamo fratelli, ogni tanto facciamo anche qualche serata insieme, oltre a incontrarci a cena. Abbiamo fatto da poco con Carlo Conti I Migliori Anni, è andato benissimo, un vero trionfo, abbiamo avuto uno share altissimo. Dopo ci hanno proposto di fare delle tournée insieme, ma abbiamo detto di no. Siamo l’unico gruppo che ancora non si è ricostituito e credo che non si ricostituirà mai… perché ci sono un po’ delle divergenze tra di noi, ma di carattere prettamente artistico, non personale. Insomma, ho tre fratelli, io sono il quarto. Non è detto che non si possa avere nella vita anche qualche fratello un po’ stronzo, ma che resta sempre però tuo fratello. E scusate per la parola “un po’ ”, ma quando ci vuole ci vuole.

Hai qualche nuovo progetto lavorativo per il futuro?

F. O.: Tra le mie esperienze mi manca solo il circo. Mi avevano chiamato per fare un reality sul circo, però ero impegnato con il teatro quindi non ho accettato. Ma non si sa mai nella vita…

(Pubblicata il 3 maggio 2010 su recensito.net)

Intervista a Mario Balsamo, documentarista e scrittore


di Ersilia Crisci

Mario Balsamo è un filmmaker documentarista, scrittore e docente, che ha al proprio attivo già diciotto titoli di incentrati su temi antropologici, di viaggio, culturali e sociali, come: Sognavo le nuvole colorate (2008), Mãe Baratinha, Una storia di una candomblè (2006), Sotto il cielo di Bagdad (2003).

In questi giorni è impegnato nella presentazione del suo ultimo libro, L’officina del documentario – fare un documentario: dalla progettazione al film, realizzato a quattro mani con il collega e amico Gianfranco Pannone.


Qual è la caratteristica più importante de L’officina del reale?

M. B.: L’officina del reale è un libro particolare, inusuale. Non è un manuale classico, è piuttosto una riflessione ampia e dialettica sull’etica e l’estetica non solo della “visione” documentaria ma anche, cosa più importante, della “realizzazione” documentaria, ossia come materialmente viene realizzato un film.

Da cosa nasce il libro?

M. B.: Il libro nasce dall’esperienza di un corso di regia del documentario tenuto con Gianfranco Pannone presso la scuola di cinema ACT Multimedia di Cinecittà. Le lezioni del libro, infatti, sono strutturate come dialoghi tra noi docenti e i ragazzi che hanno partecipato al corso, ma diventano una sorta di “dialoghi platonici” in modo che tutti i lettori possano a loro volta sentirsi una classe di studenti.

Come sono organizzate le lezioni del manuale?

M. B.: Sono divise in due parti, una più teorica e una più pratica. La parte teorica è, come dicevo, legata all’esperienza in classe dei ragazzi, alle loro domande e alle riflessioni affrontate insieme. La parte pratica, invece, descrive esattamente cosa hanno fatto gli studenti per realizzare il film (Roma intorno a Roma, n. d. r.). La descrizione è effettuata in maniera molto pratica, e risulta molto utile per il lettore che vuole imparare fattivamente a realizzare un documentario.

Cosa ti è rimasto più impresso di questa esperienza che ha portato al libro?

M. B.: Sicuramente la cosa che mi è rimasta più impressa è stata il confronto con i ragazzi, che a noi docenti ha restituito tantissimo. Questa esperienza ci ha premesso di avere come una “sonda” sulla realtà, attraverso il contatto con una generazione diversa dalla nostra. Inoltre, l’unione della docenza con l’attività di realizzazione è una possibilità preziosa (e piuttosto rara), che permette di trasmettere davvero le conoscenze tecniche. Il documentario è un settore per così dire “artigianale”, in cui la condivisione e il confronto delle esperienze sono fondamentali, sia per chi vuole imparare che per chi insegna.

Da questa esperienza hai dato il via anche a una nuova attività.

M. B.: Sì, dalla doppia esperienza di docente e di realizzatore di documentari ho creato un sito internet, (www.iltuodocumentario.it, ndr) che è dotato di un forum che permette di far incontrare i documentaristi e confrontarsi sui progetti; inoltre io fornisco diversi servizi di assistenza, dalla progettazione alla realizzazione del film.

Attualmente sei impegnato in qualche progetto?

M. B.: In questo periodo mi sto dedicando ad un nuovo progetto, di cui inizieremo le riprese quest’estate. È la storia di un uomo che vive da tempo in un parco nazionale, completamente immerso nella natura, rinunciando a ogni tipo di comfort. Quello con la natura è per l’uomo ormai un rapporto ambiguo, sia perché nonostante ci sia un diffuso bisogno di tornare a viverci a stretto contatto nei fatti non ne siamo più in grado, sia perché, come insegna Herzog, la natura non è sempre benevola.

Questo progetto ha qualche continuità con il tuo ultimo film, Sognavo le nuvole colorate?

M. B.: Sognavo le nuvole colorate trattava il tema dell’immigrazione. È la storia di Edison, un giovane arrivato in Italia da bambino che torna al suo paese di origine per incontrare la famiglia. All’interno di questa storia c’è un tema più universale, che è il filo rosso che lo lega con il nuovo progetto, che è quello del confronto con culture e luoghi diversi, il cambiamento che ne deriva e che porta a una vera e propria rivoluzione interiore.

Questa è una costante dei tuoi documentari?

M. B.: Sì, trovo interessante in generale il momento in cui l’uomo si mette in gioco, talvolta riuscendo a superare i propri limiti e talvolta no. Ed è essenziale, nella nostra società, il confronto con le altre culture.

(Pubblicata il 29 aprile 2010 su recensito.net)

Luis Tosar: "Il vero Malamadre ha abbandonato la violenza"


di Ersilia Crisci

Luis Tosar conquista il terzo premio Goya della sua carriera con l’interpretazione di Malamadre, pericoloso detenuto che guida una rivolta in carcere, nel film di Daniel Monzón Cella 211, in questi giorni nelle sale italiane. I primi due li conquistò nel 2002 e nel 2003, rispettivamente come attore non protagonista in I lunedì al sole e come attore protagonista in Ti do i miei occhi. In seguito, nel 2006, ha lavorato ad Hollywood nel film Miami Vice, remake della famosa serie televisiva degli anni ottanta diretto da Michael Mann. Attore di grande sensibilità artistica, è molto apprezzato dalla critica.


Malamadre è un personaggio ai margini della società, come molti altri che hai interpretato. Questo genere di personaggi sono il frutto di una scelta precisa?

L. T.: Sì, decisamente. Come spettatore mi piace il cinema di varie nazionalità e di vari generi, da quello d’autore a quello sperimentale, nonché di intrattenimento, ma come lavoratore del cinema, come attore, mi piace il cinema di impronta sociale, che prevede una parte di analisi della società nella quale viviamo. Per questo i miei ruoli sconfinano in personaggi “marginali”, talvolta arrivando a livelli più estremi, come nel caso di Malamadre, in altri casi restando per così dire “più grigi”. Preferisco comunque interpretare personaggi che non hanno trionfato nella vita, il cui treno è passato senza fermarsi alla stazione e che cercano in qualche modo di andare avanti.

Che differenza c’è tra Malamadre e gli altri personaggi che hai interpretato?

L. T.: Rispetto ad altri ruoli che ho interpretato, in Malamadre c’è più “spettacolo”. È un personaggio più apertamente “marginale”, per questo è più riconoscibile, più schematico, e se vogliamo per lo spettatore è più facile trovarsi al suo fianco, identificarsi quasi con lui. Nel caso di altri personaggi per lo spettatore è più difficile immedesimarsi, come ad esempio accade con Antonio, il marito violento di Ti do i miei occhi, film in cui viene mostrata la violenza domestica da parte del maltrattatore, un uomo senza più armi, che non riesce ad essere una persona normale. Lo spettatore prova invece una specie di simpatia per Malamadre, può sembrare paradossale ma è così.

Come hai costruito questo personaggio?

L. T.: Abbiamo fatto tantissime visite nei centri penitenziari, abbiamo parlato con tantissimi detenuti che ci hanno dato informazioni preziosissime. Poi abbiamo avuto la grandissima fortuna, io, Daniel (Monzón, regista, n.d.r.) e l’aiuto regista, di passare tre ore in una sala visite con un detenuto che è la persona che ho conosciuto più vicina al personaggio di Malamadre. Aveva alle spalle un ricco curriculum di insurrezioni in carcere, aveva anche ucciso un poliziotto in un tentativo di fuga, era stato quindi molto pericoloso, ma adesso ha deciso di abbandonare la violenza. Mi ha detto che per tutto il periodo in cui è stato il “boss” del carcere, l’essere il leader dei detenuti gli aveva provocato un stato di psicosi, una sorta di allarme interiore costante, perché non sapeva mai se la persona che aveva davanti fosse un amico o una minaccia. È stata una rivelazione, la chiave che mi ha permesso di vedere la luce per il mio personaggio, che mi ha fornito un riferimento chiaro su come procedere.

Qual è la morale di Cella 211?

L. T.: Che non bisogna fidarsi delle autorità!

(Pubblicata il 21 aprile 2010 su recensito.net)

Intervista a Jorge Guerricaechevarría, sceneggiatore del film Cella 211


di Ersilia Crisci

Tra gli otto Premi Goya 2010 conquistati da Cella 211 c'è anche quello alla migliore sceneggiatura non originale, assegnato a Jorge Guerricaechevarría e Daniel Monzón. quest'ultimo anche regista del film. Guerricaechevarría è oggi acclamato come uno degli sceneggiatori più autorevoli del panorama cinematografico spagnolo; durante la sua carriera ha collaborato a lungo con il regista Alex de la Iglesia, con il quale ha scritto, tra gli altri, Crimen Ferpecto (2004), La Comunidad – intrigo all’ultimo piano (2000), Perdida Durango (1997), Accion Mutante (1993); per Pedro Almodovar ha scritto nel 1997 Carne Tremula, mentre il connubio con Daniel Monzón è iniziato nel 2006 con il film La Caja Kovak.
Cella 211 trae ispirazione dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul, opera prima pubblicata in Spagna dalle edizioni “Lengua de Trapo”, che si è aggiudicata il premio come miglior romanzo noir nella settimana del cinema Noir di Gijon del 2005.
In uscita nelle sale italiane il 16 aprile, il film, oltre ad aver fatto incetta di premi, ha già incassato in Spagna quindici milioni di euro al botteghino.

Come avete lavorato alla sceneggiatura del film, e per quanto tempo?

J. G.: Daniel Monzón e io abbiamo lavorato un anno alla scrittura della sceneggiatura, durante il quale abbiamo cercato di trascorrere quanto più tempo possibile con persone la cui vita era strettamente collegata a quella del carcere. Nonostante il film sia stato tratto da un romanzo di finzione abbiamo voluto conoscere a fondo la realtà della prigione, per poterla rappresentare in modo molto concreto e vero.

Come mai questa scelta?

J. G.: Volevamo che il nostro film avesse un fondo di verità, in modo che i personaggi potessero raccontare le situazioni estreme rappresentate nel film facendo sentire lo spettatore veramente coinvolto nella storia, permettendogli di riconoscerla come plausibile.

Cosa vi è rimasto più impresso tra i risultati di queste ricerche?

J. G.: Ci siamo resi conto che l’ambiente della prigione è come un riflesso della società che lo genera, in una forma concentrata. Come ci disse un carcerato della prigione di Valdemoro: “il mondo qui dentro è esattamente identico al mondo esterno, l’unica differenza è che è in formato MP3”.

Il film mostra in modo molto crudo la vita nelle carceri. È così come la mostrate?

J. G.: La situazione delle carceri è sicuramente migliorata, in Spagna come in molti altri Paesi, ma continuano ad esserci delle situazioni terribili, ad esempio il trattamento che ricevono i malati. È vero quello che ci ha raccontato un altro detenuto, ossia che molto spesso i prigionieri sono considerati immondizia che si preferisce tenere lontano perché ha un cattivo odore. Questo succede anche con i detenuti che si ammalano.

Nel film viene infatti sollevato il tema della malattia in carcere.

J. G. : Se per una persona libera occorrono mesi per avere un esame o una diagnosi, immaginiamo la situazione di un carcerato, di cui non importa niente a nessuno e che è considerato uno degli ultimi della società. Molto spesso in prigione i malati vengono curati dal dottore che li visita attraverso le sbarre, perché considerati particolarmente pericolosi. Ci siamo concentranti su questi aspetti per cercare di rendere il film vero. Per esempio il personaggio che si suicida all’inizio della storia rappresenta il leitmotiv del film. Nelle prigioni infatti ci sono molti decessi, è un dato molto chiaro, e ciò dipende da una forma di discriminazione. Anzi, a dirla proprio tutta le cifre sulle morti in carcere sono ritoccate: nelle prigioni spagnole, quando si sa che uno sta per morire, lo mandano fuori, così da non farlo rientrare nelle statistiche delle morti all’interno del carcere.

Vi siete rifatti a qualche film di genere in particolare per realizzare Cella 211?

J. G.: No, non ci siamo basati su nessun film concreto, perché per la maggior parte si tratta di film di provenienza americana. Negli Usa i detenuti indossano tutti la stessa uniforme, le celle sono tutte uguali e si chiudono tutte contemporaneamente con degli strani meccanismi, le carceri sono insomma molto distanti da quelle europee, e spagnole in particolare. La vera sfida, la cosa veramente interessante, è stata quella di rappresentare nel modo più veritiero possibile le carceri spagnole, fuggendo qualsiasi riferimento alle carceri americane.

Nella trama non c’è alcuna forma di recupero dei detenuti.

J. G.: Nel mondo delle carceri, nella realtà, si assiste per fortuna a diverse storie di recupero. Gli educatori lavorano strenuamente e lo fanno per spirito di dedizione e non certo per un compenso economico, che peraltro è estremamente basso. Questo film parla di un momento particolare di un carcere, un momento preciso rappresentato dalla rivolta dei detenuti: non avrebbe avuto senso dare spazio ad una storia di un recupero. Ma ci sono anche altri personaggi oltre ai carcerati, come le guardie carcerarie. Abbiamo cercato di rappresentare vari tipi di guardie, dai più anziani, facenti parte della “vecchia” guardia, abituati a un largo uso della violenza, ai più giovani, più disposti a una gestione umana della prigione.

Durante la rivolta i ribelli rapiscono dei prigionieri dell’Eta. Che reazione c’è stata attorno a questo argomento in Spagna?

J. G.: Non c’è stata molta polemica riguardo a questo argomento, che effettivamente è delicato, ma ci sono state piuttosto delle reazioni positive da parte della gente che ha visto trattare l’argomento dei terroristi dell’Eta come un qualsiasi altro argomento. Secondo noi è positivo che sia stato rotto questo tabù, perché nel film questi personaggi vengono trattati come gli altri. Qualcuno all’inizio ci aveva proposto di eliminarli per evitare problemi, tuttavia abbiamo scelto di lasciarli perché volevamo rappresentare il carcere come un microcosmo della società, e questi personaggi sono presenti nella realtà spagnola.

Il film è stato a Toronto e ha riscosso molto successo. Ci sono state proposte di acquisto per farne il remake?

J. G.: Sì, in effetti ci sono state delle proposte, anche se non c’è nulla di certo. Questa è una cosa che da un lato mi gratifica, ma dall’altro non mi fa piacere. Non mi piace l’idea che questo film possa diventare un ennesimo film in stile americano. Io nel ruolo di Malamadre posso immaginare soltanto Luis Tosar, non riesco a vedere altri attori.

(Pubblicata il 14 aprile 2010 su recensito.net)

Il produttore Roberto Baratta parla dell'ultimo film:"Nat e il segreto di Eleonora"


di Ersilia Crisci

Dopo La gabbianella e il gatto, Totò sapore e Aida degli alberi, il 2 aprile 2010 uscirà l’ultimo film prodotto da Lanterna Magica, Nat e il segreto di Eleonora. Una storia delicata e poetica che nella trama e nella grafica ricorda più un acquerello dalle tinte pastello che un videogioco. Evviva. Roberto Baratta, che ha fondato con Maria Fares Lanterna Magica, ci racconta la storia di questa particolare casa di produzione, che ha sempre scelto di realizzare film di animazione rischiosi da un punto di vista commerciale preferendo la qualità poetica ed artistica dei suoi prodotti. Osservando lo sguardo limpido di Roberto, quello di un adulto che conserva ancora dentro di sé la bellezza dell’infanzia, e ascoltando le sue parole, in cui termine ricorrente è "sensibilità" ne comprende facilmente il perché.


Lanterna Magica è una casa di produzione di film di animazione presente da quasi trent’anni sulla scena cinematografica italiana. Mi racconta le sue origini?

R. B.: Lanterna Magica oggi ha ben 27 anni di vita. Ha iniziato la propria attività nel settore educazionale nelle scuole realizzando esperienze con i bambini legate al mondo dell’animazione. Inizialmente, produceva diversi corti con varie tecniche, destinati ai circuiti scolastici. Su questa capacità di contatto con il mondo dei bambini si è innestata anche la capacità di descrivere il loro mondo attraverso un prodotto di animazione fruibile dal grande pubblico. Così sono partite una serie di iniziative dirette alla televisione, fino arrivare alla prima esperienza di lungometraggio che è stata la Freccia Azzurra.

Cosa ha rappresentato per Lanterna Magica il primo lungo, Freccia azzurra?

R. B.: E’ stata una esperienza davvero importante. L’Italia usciva da un periodo abbastanza lungo in cui di fatto non si era verificata nessuna capacità di realizzare un film di animazione. Noi di Lanterna, invece, abbiamo realizzato in modo piuttosto artigianale, ma di alta qualità, questo film che ha ricreato intorno al cinema di animazione italiano un grande interesse.

Dopo il primo film cosa è successo?

R. B.: Freccia Azzurra è stato realizzato più di 12-13 anni fa, da allora Lanterna ha proseguito con questa sua triplice attività, cinema, televisione (serie televisive) ed attività formative con i bambini. Il momento fondamentale però è ancora l’attività formativa, che diventa anche il momento di collaudo del prodotto di animazione attraverso il giudizio fondamentale di quelli a cui è principalmente diretto, ossia i bambini e le scuole.

Venerdì 2 aprile uscirà nei migliori cinema il vostro ultimo film, Nat e il segreto di Eleonora. Da cosa nasce questa ultima esperienza?

R. B.: Nat nasce intanto da un rapporto di collaborazione con una casa francese, la Alphanim/Gaumont, con cui già avevamo realizzato una serie televisiva. In questo caso la proposta è partita dai francesi, ma abbiamo immediatamente avuto un grande interesse per questa che ci è sembrata fin da subito una storia bella, avvincente e vicina alla sensibilità di Lanterna. Da lì ne è scaturito un accordo, e infatti Nat nasce come coproduzione, in cui Lanterna ha messo come suo elemento caratteristico la grande capacità che ha di lavorare sull’impianto delle scenografie, che infatti sono state realizzate completamente in Italia.

Qual è stato il risultato artistico di questa collaborazione?

R. B.: La fusione della creatività di Rebecca Dautremer, che è una grande disegnatrice francese, e le competenze di Lanterna in particolare per quello che attiene all’aspetto scenografie, realizzate da Marco Martis, ha dato vita ad un prodotto che consideriamo vicino alla sensibilità di Lanterna e, speriamo che poi ce lo confermi il box office, vicino anche alla sensibilità del pubblico delle famiglie italiane.

In cosa consiste la sensibilità di Lanterna?

R. B.: Il voler indagare in modo poetico e delicato il mondo dei bambini, le loro preoccupazioni, le loro ansie, ma anche le loro gioie. Nat risponde esattamente a queste linee guida di Lanterna.

Uno dei film indimenticabili di Lanterna è La gabbianella e il gatto. Che rapporto ha questo film con l’ultimo, Nat e il segreto di Eleonora?

R. B.: Sono due storie effettivamente diverse. Gabbianella aveva alle spalle una grande scrittura che è quella di Louis Sepulvéda, rispondeva molto ad una serie di tematiche che otto nove anni fa erano particolarmente sentite, come quelle ecologiste, oltre a quelle più tradizionali di solidarietà, amicizia tra diversi, in questo caso un gatto ed una gabbianella. Questo in qualche modo diventa l’elemento unificante con Nat, in cui c’è sempre, per raggiungere un obiettivo, la ricerca di alleanze profonde tra personaggi con storie e culture in qualche modo diverse. Nel caso di Nat è ancora più esaltato questo il valore della fantasia, in qualche modo Gabbianella aveva un valore un po’ più… chiamiamolo militante. Però direi che ci sono forti analogie per molti altri aspetti, soprattutto poetici.

Anche l’argomento di Nat è molto attuale, il tema centrale è la dislessia e la possibilità di superarla perfettamente.

R. B.: Questo è vero, secondo me è una tematica molto forte. In Italia la dislessia ancora non viene ben riconosciuta, mentre in altri paesi europei c’è una grande attenzione a questo tema e sono molto più pronti nell’affrontarlo. La dislessia è un disturbo dell’apprendimento che può essere superato completamente grazie ad interventi specifici, di solito si accompagna a grande intelligenza e sensibilità del bambino. Se non viene riconosciuta, però, può alla lunga creare un serio problema di apprendimento e quindi una difficoltà di inserimento lavorativo e sociale nel futuro del bambino.

Il film, invece, contiene un bellissimo messaggio.

R. B.: Sì, il film intende rassicurare sia il bambino che le famiglie, insegna che una difficoltà iniziale può spaventare ma può essere pienamente superata. Il tutto con una storia decisamente metaforica, fantasiosa, delicata, in cui tutti i bambini possono immedesimarsi, perché tutti vanno a scuola e imparano cose che possono sembrare difficili. Il film, inoltre, ha la capacità di emozionare, di coinvolgere emotivamente, affronta il tema della paura ma, soprattutto, del superamento della paura. È fondamentale anche il tema della fratellanza, del raggiungere degli obiettivi ma non da soli ma con altri.

Il 7 aprile uscirà il libro di Nat e il segreto di Eleonora.

R. B.: Nat non nasce come libro, è un lavoro di scrittura di uno sceneggiatore francese. Dal film nasce il libro, che in Italia sarà edito da Gallucci, e uscirà nelle librerie una settimana dopo l’uscita del film nelle sale.

(Pubblicata il 1 aprile 2010 su recensito.net)

Paolo Sorrentino: "Ho messo Tony Pisapia in un libro"


di Ersilia Crisci

“Gli uomini si dividono in due categorie. Quelli che si mettono comodi ed appassiscono, e gli altri. Io faccio parte degli altri”. A parlare è Tony Pagoda, protagonista di "Hanno tutti ragione" primo romanzo dell’acclamato e pluripremiato regista Paolo Sorrentino, presentato alla Libreria Feltrinelli di via Appia di Roma.
Cocainomane cantante napoletano, dopo aver trascorso diciotto anni in Brasile, Tony decide di tornare in Italia al servizio di un potente uomo politico, scoprendo così quanto sia cambiato il suo Paese.
Sorrentino presta la propria voce a quella del protagonista, che descrive i personaggi e i luoghi cari alla formazione dell’autore, gli ambienti dei cantanti neomelodici degli anni ‘70, la loro musica, il loro rapporto con le donne e, soprattutto, con la droga, attraverso un linguaggio corrosivo e decisamente attento alle sfumature.
Paolo Sorrentino ci racconta come è nata la sua prima creatura letteraria.


Cosa ti ha spinto a fare il grande salto dal cinema alla letteratura?

Paolo Sorrentino: Ci pensavo da tanti anni a scrivere un libro. Quando ragionavo sulla sceneggiatura de "L’uomo in più" in più prendevo anche degli appunti per un romanzo, che poi era proprio questo qui. Però in realtà il vero grande salto è stato passare dalla sceneggiatura alla regia: il passaggio dallo scrivere sceneggiature a scrivere un romanzo non è così traumatico, così come non lo è al contrario, chi scrive libri si può trovare con una certa naturalezza a scrivere sceneggiature per il cinema. C’è però anche da dire che sin dall’inizio, da quando ho cominciato a scrivere sceneggiature, quelli più grandi di me e più bravi, con i quali ho collaborato, come il regista napoletano Antonio Capuano, mi hanno sempre indirizzato verso un approccio alla sceneggiatura che avesse anche delle vicinanze con la letteratura. Spesso si leggono delle sceneggiature che sono simili ad un “verbale di polizia”, schematiche e asettiche, mentre loro mi hanno sempre indirizzato ad un tipo di scrittura che fosse debitrice della letteratura.

Quali sono state le principali differenze tra lo scrivere una sceneggiatura e scrivere un libro?

P.S.: Nella scrittura cinematografica si deve necessariamente rendere conto a tutta una serie di referenti, non ultimo a chi ti deve dare una quantità non marginale di danaro, sei quindi portato a scrivere tenendo conto di molti limiti, di cui il principale è il tempo: un film non può andare oltre una certa durata, invece il libro ti consente una grande libertà. Ero libero anche perché la scrittura del romanzo è nata come una forma di puro divertimento, non sono stato soggetto a strategie e pianificazioni a tavolino, mi sono divertito e basta. Ad un certo punto l’ho fatto leggere ad alcune persone, agli amici, per scoprire se quello che divertiva me divertiva anche gli altri. L’obiettivo primario del libro, infatti, era fare ridere, che è la mia ossessione primaria e che al cinema credo mi riesca molto poco, nonostante i miei numerosi tentativi di cui non si accorge nessuno… A parte scherzi, l’obiettivo primario del libro era far ridere, e sapere che chi l’ha letto ride significa per me che il risultato è stato ampiamente raggiunto.

Quindi da un punto di vista narrativo la differenza principale è nella temporalità?

P.S.: Sì. Questo libro è in un certo senso il contrario di una sceneggiatura. Una sceneggiatura è fatta spesso di trama, ci si chiede come attaccare una scena all’altra, come cominciarla e come finirla. In questo libro non mi pongo nessuno di questi problemi, ho potuto lavorare in libertà, mi muovo nel tempo e nello spazio con grande fluidità, senza vincoli, con rallentamenti e accelerazioni. Basti pensare che una buona metà del libro racconta di una domenica. Una domenica napoletana, fatta di droga e di sbandamento. Invece i diciotto anni brasiliani li ho raccolti in due o tre capitoli. C’è anche una grande attenzione alle pause, dal ritmo frenetico della voce del narratore si passa alle sue riflessioni dilatate, sviscerate fino al loro nucleo centrale.

Tony Pagoda ha una forte somiglianza con Tony Pisapia, de L’uomo in più. Che collegamento c’è tra i due personaggi?

P.S.: Il personaggio è proprio lo stesso, solo che con il passare del tempo ho trovato un cognome che mi piaceva di più, “Pagoda” trovo che sia più bello di “Pisapia”. Il personaggio è esattamente lo stesso, ma il libro non c’entra niente con il film, le vicende sono tutt’altro. Per me il personaggio del cantante di musica leggera degli anni ’70 è una fonte di ispirazione inesauribile. Ha una caratteristica umana che io gli invidio molto, cioè di essere estremamente vitale e quasi ottusamente innamorato della vita. Pagoda è un personaggio per certi versi ottuso, ma la sua ottusità è un vantaggio sugli altri anziché uno svantaggio. In tante situazioni sembrerebbe infatti non avere i mezzi per sopravvivere, mentre invece ci riesce sempre brillantemente. E poi il cantante di musica leggera dei quegli anni è un personaggio che offre delle ottime possibilità di attraversare molti mondi. Quelli che ho conosciuto passavano con molta disinvoltura dalla frequentazione dei malavitosi alla frequentazione di gente colta, così come con grande disinvoltura frequentavano le droghe e situazioni piuttosto squallide, come con l’universo femminile, ma erano capaci poi di grandi guizzi poetici quando scrivevano i testi delle proprie canzoni. C’è un tale eclettismo nei cantanti di quegli anni che per chi come me ha voglia di mettere il becco un po’ in tanti mondi da fungere meravigliosamente da Caronte traghettatore da una dimensione all’altra.

La vicenda del neomelodico che torna al servizio di un potente uomo politico ricorda molto da vicino una situazione già vista nel nostro Paese…

P.S.: Indubbiamente non sarebbe credibile dire che non ho pensato al caso Apicella. Anche se Apicella non è propriamente un cantante, è uno che dice di sé di essere un cantante. Però tra i cantanti o sedicenti tali è sicuramente una delle figure più interessanti, è indubbiamente quello che meglio rappresenta la capacità di passare con disinvoltura da un ambiente all’altro. Sì, indubbiamente ho pensato a questa situazione, ma non è il punto focale della faccenda. Il punto focale dell’ultima parte del libro è che questo signore, Tony Pagoda, tornando a Roma dopo vent’anni di assenza dall’Italia, fa fatica a mettere a fuoco gli accadimenti che hanno cambiato l’Italia, che poi è un po’ quello che succede a tutti noi anche senza essere stai lontano dall’Italia vent’anni. Mi interessava dargli quest’alibi, legato all’assenza dal Paese, in modo che avendo l’incapacità totale di comprendere ha il bisogno di farsi spiegare tutto, ma resta comunque nell’incapacità di decifrare il presente. È, questa, una sensazione che provo spesso che è comune a molti, ma che nel suo caso è corroborato dall’assenza.

Cominci ogni capitolo citando dei versi di canzoni...

P.S.: Sono un omaggio ai parolieri della musica italiana. Mi sembra che ci siano parole di canzoni che hanno un grande valore letterario, e mi piaceva l’idea di dargli un tributo in un libro.

Quali sono le letture che ti hanno maggiormente influenzato?

P.S.: Sono moltissime, anche solo restando nell’ambito della letteratura italiana. Preferisco tutti gli autori, di ieri e di oggi, che abbiano una grande forza nel linguaggio. Mi piace molto Carlo Dossi, o anche l’innominabile D’Annunzio, che trovo però molto interessante proprio sul piano del linguaggio. O anche Montesano, che scrive in napoletano italianizzato: quando la borghesia italianizza il napoletano ci sono delle costruzioni linguistiche che fanno sorridere. Il mio piccolo, umile, lavoro sul linguaggio è consistito proprio in questo, prendere la lingua della città in cui sono cresciuto e italianizzarla. Non è ili linguaggio della Napoli del centro, ma della Napoli che si è imborghesita, che viene infatti contrastata da chi si sente napoletano al cento per cento.

I personaggi femminili del libro sono diversi da quelli dei tuoi film, e hai una grande attenzione nel descrivere le scene di sesso.

P.S.: Sono molto soddisfatto dei personaggi femminili del libro, a differenza di quelli dei miei film che lasciano abbastanza a desiderare e costituiscono di solito oggetto di critiche. In questo caso invece ne sono molto contento, perché avevo a disposizione un personaggio pressoché ossessionato dal sesso, che ha, per così dire, un accumulo di donne. Ho cercato di descrivere le dinamiche sessuali fino in fondo, di essere efficace: il problema delle scene di sesso, che è comune anche al cinema, è che un po’ per pudore un po’ per imbarazzo si finisce per essere generici, cosa che lo spettatore generalmente non sopporta perché se c’è qualcosa di cui tutti bene o male hanno conoscenza è proprio il sesso. ho cercato di essere preciso e di esprimerlo per come il personaggio avrebbe potuto viverlo.

Un’ultima domanda: da dove viene il titolo del libro, "Hanno tutti ragione" ?

P.S.: A dire la verità prima si chiamava “Tony Pagoda e il vitalismo”, ma non convinceva un po’ nessuno. Poi sono andato dal mio editore con una lista di titoli, e lui mi ha suggerito tra i vari questo. Mi sono subito convinto.

(Pubblicata il 18 marzo 2010 su recensito.net)

Carmen Consoli: "In Italia chi si distingue per merito è costretto a nascondersi"


di Ersilia Crisci

Ho incontrato Carmen Consoli in occasione della presentazione del suo ultimo disco, Elettra, alla Feltrinelli di via Appia a Roma verso la fine di febbraio. Durante l’incontro, moderato da Federico Guglielmi, la Consoli ha raccontato ai suoi fan la genesi dell’album, il doppio tour in cui adesso è impegnata, la partecipazione al Sanremo. È stata inoltre presentata la nuova biografia della cantantessa, scritta da una sua giovane fan, Elena Rugei.



Da cosa nasce Elettra, il tuo ultimo album?

Carmen Consoli: Questo disco mi ha aiutata a trasformare un momento abbastanza difficile della mia vita e ad uscirne addirittura con gioia. Dentro c’è tutto, il desiderio di rinascere, di superare, di ricostruire. È un disco d’amore, a trecentosessanta gradi: l’amore paterno, materno, filiale, abusato, l’amore violento, l’amore per la propria terra. Mi ha fatto capire l’enorme importanza che la musica ha per me, l’ho usata come medicina.

Come mai hai scelto di intitolarlo Elettra?

C.C.: Elettra è un personaggio caleidoscopico, è stata interpretata in molti modi e quindi ha tantissime facce. Il titolo si riferisce al complesso di Elettra, all’amore verso il padre. Mi sono chiesta oggi cosa ci direbbe questo personaggio. Per me, nella mia canzone, è una prostituta.

Il tuo ultimo album, Eva contro Eva, ha uno stile marcatamente folk, mentre il nuovo no. Qual è il motivo?

C.C.: Io credo che i dischi riflettano le esperienze della vita. Solitamente tengo dei laboratori aperti al pubblico, ed Eva contro Eva viene dopo un laboratorio che avevo fatto cantando musica tipica siciliana, quella della tradizione che avevo vissuto sulla pelle. Questo disco invece è un recupero delle sonorità a me care, forse anche delle parole, nasce con le stesse caratteristiche del mio primo disco, quindici anni dopo. Il suo laboratorio è stata la realizzazione della colonna sonora de “L’uomo che ama”, ha sonorità simili e la stessa impostazione. Oggi stiamo facendo un altro tipo di esperienza: da una parte di tipo elettronico, dall’altra teatrale, più europea, per cui chissà il prossimo disco cosa sarà.

In questo momento stai facendo un doppio tour, in due contesti diversi, ma organizzati assieme. Perché?

C.C.: Avevo voglia di sperimentare. Volevo sperimentare la musica elettronica insieme con il pubblico, fare giochi, scherzare, parlare e cantare in diverse lingue, tedesco, francese, inglese, recuperare vecchie cover. Se avessi fatto solo questo avrei disorientato il pubblico. Invece i due concerti insieme sono complementari.

Che differenze ci sono tra i due tour?

C.C.: In un caso le sonorità sono più estreme, ma le canzoni trattano di amore, sono le stesse tematiche di Mediamente Isterica. Nell’altro le sonorità sono più acustiche ma le tematiche più rock: mio zio, gli abusi in famiglia… però suonate con i mandolini. In questo modo mi sono tolta il peso di dover giustificare a chi ama la musica acustica perché faccio rock, a chi ama il rock perché faccio musica acustica. Anche se cambio l’abito il contenuto è lo stesso.

In tutti questi anni hai mantenuto sempre uno stile fortemente riconoscibile, come ci sei riuscita?

C.C.: Non l’ho fatto progettandolo. Io in realtà tento in tutti i modi di omologarmi, vado a Sanremo, provo a vestirmi anni quaranta, a fare grazie dei fiori, cerco di fare la signorina d’Italia. Il punto è che ho cercato sempre di tirare fuori con sincerità il frutto della mia creatività, tento sempre di essere me stessa e cerco di non prendermi troppo sul serio. In fondo l’arte è anche divertimento, non bisogna fare per forza gli intellettuali. Lo facevo negli anni Novanta ma ero piccola, adesso sono una donna di 35 anni e mi va di fare ciò che più mi piace, ciò che più mi diverte.

Hai da poco concluso il tuo tour americano, come è andata?

C.C.: Avevo preparato tre spettacoli diversi, uno da bassista, uno da chitarrista però con le chitarre tutte in cordatura aperta, uno da chitarrista e cantante con un altro repertorio. Dovevo dividere la mia giornata dedicandomi a turno a tutte e tre le cose, per fortuna il mio staff mi ha fatto dei cd contenenti tutta l’esecuzione tranne il mio strumento e la mia voce, così potevo studiare. Arrivata negli Stati Uniti ho portato il concerto per chitarra e voce, abbiamo fatto un mini tour, un giorno dopo l’altro, e il riscontro è stato davvero esaltante. Ho portato per così dire il mio rock, contaminato da elementi della mia terra, ho suscitato grande curiosità come ogni anno. Dobbiamo tornare e ci sono sempre più date.

Una delle novità del disco e del tour è che suoni il basso...

C.C.: Sì, la novità è che ho abbracciato il basso elettrico. Ma, non essendo molto fine come bassista, anzi un po’ zaurda, come si dice a Catania, cioè un po’ tamarra, sono venuti fuori pezzi come Mosca Cieca, che si discostano moltissimo da Eva contro Eva, dove c’era invece un fior fiore di bassista, che era Alejandro. L’idea è nata perché ci siamo ripromessi con la band che nessun altro avrebbe suonato il basso elettrico al suo posto, quindi l’ho imbracciato io. Non l’ho fatto per la presunzione di poter fare tutto, ma per sentirlo ancora vicino a noi. Sul palco porto il suo strumento e il suo amplificatore, stiamo vivendo tutti questa emozione.

Da poco ti sei esibita al Festival di Sanremo, ma non eri in gara...

C.C.: Perché odio la competizione. Stimo tutte queste persone che concorrono e si fanno giudicare, io non ho preso nemmeno la patente per non farmi giudicare. Quando ho partecipato quindici anni fa un mese dopo mi sono venuti i capelli bianchi. Però ho partecipato come ospite perché penso sia incoerente per una cantante italiana, che vive in Italia, snobbare il Sanremo. Inoltre ho avuto modo di provare dei piaceri forti: avere un’orchestra di musicisti bravissimi che fanno venire la pelle d’oca, cantare una canzone storica come quella di Nilla Pizzi, e collaborare col maestro Vessicchio. Ho sempre desiderato lavorare con lui, che piaceva tanto al mio papà… ha accettato di scrivere gli archi per la canzone dedicata a lui, "Mandaci una cartolina".

Cosa ne pensi del Sanremo di adesso?

C.C.: Penso che il festival della musica italiana sia unico al mondo, nessun paese del mondo ha una cosa del genere. È il suo contenuto ciò che crea discussioni, assensi e dissensi. Ha vissuto momenti sicuramente più felici. Credo che il festival sia talmente radicato nella nostra cultura da essere uno specchio della nostra società. Noi siamo in un paese in cui chi si distingue per merito e talento è costretto a nascondersi, nel Sanremo vedo proprio questa lente, pensiamo al principe che canta…

(Pubblicata il 17 marzo su recensito.net)