di Ersilia Crisci
Luis Tosar conquista il terzo premio Goya della sua carriera con l’interpretazione di Malamadre, pericoloso detenuto che guida una rivolta in carcere, nel film di Daniel Monzón Cella 211, in questi giorni nelle sale italiane. I primi due li conquistò nel 2002 e nel 2003, rispettivamente come attore non protagonista in I lunedì al sole e come attore protagonista in Ti do i miei occhi. In seguito, nel 2006, ha lavorato ad Hollywood nel film Miami Vice, remake della famosa serie televisiva degli anni ottanta diretto da Michael Mann. Attore di grande sensibilità artistica, è molto apprezzato dalla critica.
Malamadre è un personaggio ai margini della società, come molti altri che hai interpretato. Questo genere di personaggi sono il frutto di una scelta precisa?
L. T.: Sì, decisamente. Come spettatore mi piace il cinema di varie nazionalità e di vari generi, da quello d’autore a quello sperimentale, nonché di intrattenimento, ma come lavoratore del cinema, come attore, mi piace il cinema di impronta sociale, che prevede una parte di analisi della società nella quale viviamo. Per questo i miei ruoli sconfinano in personaggi “marginali”, talvolta arrivando a livelli più estremi, come nel caso di Malamadre, in altri casi restando per così dire “più grigi”. Preferisco comunque interpretare personaggi che non hanno trionfato nella vita, il cui treno è passato senza fermarsi alla stazione e che cercano in qualche modo di andare avanti.
Che differenza c’è tra Malamadre e gli altri personaggi che hai interpretato?
L. T.: Rispetto ad altri ruoli che ho interpretato, in Malamadre c’è più “spettacolo”. È un personaggio più apertamente “marginale”, per questo è più riconoscibile, più schematico, e se vogliamo per lo spettatore è più facile trovarsi al suo fianco, identificarsi quasi con lui. Nel caso di altri personaggi per lo spettatore è più difficile immedesimarsi, come ad esempio accade con Antonio, il marito violento di Ti do i miei occhi, film in cui viene mostrata la violenza domestica da parte del maltrattatore, un uomo senza più armi, che non riesce ad essere una persona normale. Lo spettatore prova invece una specie di simpatia per Malamadre, può sembrare paradossale ma è così.
Come hai costruito questo personaggio?
L. T.: Abbiamo fatto tantissime visite nei centri penitenziari, abbiamo parlato con tantissimi detenuti che ci hanno dato informazioni preziosissime. Poi abbiamo avuto la grandissima fortuna, io, Daniel (Monzón, regista, n.d.r.) e l’aiuto regista, di passare tre ore in una sala visite con un detenuto che è la persona che ho conosciuto più vicina al personaggio di Malamadre. Aveva alle spalle un ricco curriculum di insurrezioni in carcere, aveva anche ucciso un poliziotto in un tentativo di fuga, era stato quindi molto pericoloso, ma adesso ha deciso di abbandonare la violenza. Mi ha detto che per tutto il periodo in cui è stato il “boss” del carcere, l’essere il leader dei detenuti gli aveva provocato un stato di psicosi, una sorta di allarme interiore costante, perché non sapeva mai se la persona che aveva davanti fosse un amico o una minaccia. È stata una rivelazione, la chiave che mi ha permesso di vedere la luce per il mio personaggio, che mi ha fornito un riferimento chiaro su come procedere.
Qual è la morale di Cella 211?
L. T.: Che non bisogna fidarsi delle autorità!
(Pubblicata il 21 aprile 2010 su recensito.net)
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