giovedì 23 dicembre 2010

Intervista a Jorge Guerricaechevarría, sceneggiatore del film Cella 211


di Ersilia Crisci

Tra gli otto Premi Goya 2010 conquistati da Cella 211 c'è anche quello alla migliore sceneggiatura non originale, assegnato a Jorge Guerricaechevarría e Daniel Monzón. quest'ultimo anche regista del film. Guerricaechevarría è oggi acclamato come uno degli sceneggiatori più autorevoli del panorama cinematografico spagnolo; durante la sua carriera ha collaborato a lungo con il regista Alex de la Iglesia, con il quale ha scritto, tra gli altri, Crimen Ferpecto (2004), La Comunidad – intrigo all’ultimo piano (2000), Perdida Durango (1997), Accion Mutante (1993); per Pedro Almodovar ha scritto nel 1997 Carne Tremula, mentre il connubio con Daniel Monzón è iniziato nel 2006 con il film La Caja Kovak.
Cella 211 trae ispirazione dall’omonimo romanzo di Francisco Pérez Gandul, opera prima pubblicata in Spagna dalle edizioni “Lengua de Trapo”, che si è aggiudicata il premio come miglior romanzo noir nella settimana del cinema Noir di Gijon del 2005.
In uscita nelle sale italiane il 16 aprile, il film, oltre ad aver fatto incetta di premi, ha già incassato in Spagna quindici milioni di euro al botteghino.

Come avete lavorato alla sceneggiatura del film, e per quanto tempo?

J. G.: Daniel Monzón e io abbiamo lavorato un anno alla scrittura della sceneggiatura, durante il quale abbiamo cercato di trascorrere quanto più tempo possibile con persone la cui vita era strettamente collegata a quella del carcere. Nonostante il film sia stato tratto da un romanzo di finzione abbiamo voluto conoscere a fondo la realtà della prigione, per poterla rappresentare in modo molto concreto e vero.

Come mai questa scelta?

J. G.: Volevamo che il nostro film avesse un fondo di verità, in modo che i personaggi potessero raccontare le situazioni estreme rappresentate nel film facendo sentire lo spettatore veramente coinvolto nella storia, permettendogli di riconoscerla come plausibile.

Cosa vi è rimasto più impresso tra i risultati di queste ricerche?

J. G.: Ci siamo resi conto che l’ambiente della prigione è come un riflesso della società che lo genera, in una forma concentrata. Come ci disse un carcerato della prigione di Valdemoro: “il mondo qui dentro è esattamente identico al mondo esterno, l’unica differenza è che è in formato MP3”.

Il film mostra in modo molto crudo la vita nelle carceri. È così come la mostrate?

J. G.: La situazione delle carceri è sicuramente migliorata, in Spagna come in molti altri Paesi, ma continuano ad esserci delle situazioni terribili, ad esempio il trattamento che ricevono i malati. È vero quello che ci ha raccontato un altro detenuto, ossia che molto spesso i prigionieri sono considerati immondizia che si preferisce tenere lontano perché ha un cattivo odore. Questo succede anche con i detenuti che si ammalano.

Nel film viene infatti sollevato il tema della malattia in carcere.

J. G. : Se per una persona libera occorrono mesi per avere un esame o una diagnosi, immaginiamo la situazione di un carcerato, di cui non importa niente a nessuno e che è considerato uno degli ultimi della società. Molto spesso in prigione i malati vengono curati dal dottore che li visita attraverso le sbarre, perché considerati particolarmente pericolosi. Ci siamo concentranti su questi aspetti per cercare di rendere il film vero. Per esempio il personaggio che si suicida all’inizio della storia rappresenta il leitmotiv del film. Nelle prigioni infatti ci sono molti decessi, è un dato molto chiaro, e ciò dipende da una forma di discriminazione. Anzi, a dirla proprio tutta le cifre sulle morti in carcere sono ritoccate: nelle prigioni spagnole, quando si sa che uno sta per morire, lo mandano fuori, così da non farlo rientrare nelle statistiche delle morti all’interno del carcere.

Vi siete rifatti a qualche film di genere in particolare per realizzare Cella 211?

J. G.: No, non ci siamo basati su nessun film concreto, perché per la maggior parte si tratta di film di provenienza americana. Negli Usa i detenuti indossano tutti la stessa uniforme, le celle sono tutte uguali e si chiudono tutte contemporaneamente con degli strani meccanismi, le carceri sono insomma molto distanti da quelle europee, e spagnole in particolare. La vera sfida, la cosa veramente interessante, è stata quella di rappresentare nel modo più veritiero possibile le carceri spagnole, fuggendo qualsiasi riferimento alle carceri americane.

Nella trama non c’è alcuna forma di recupero dei detenuti.

J. G.: Nel mondo delle carceri, nella realtà, si assiste per fortuna a diverse storie di recupero. Gli educatori lavorano strenuamente e lo fanno per spirito di dedizione e non certo per un compenso economico, che peraltro è estremamente basso. Questo film parla di un momento particolare di un carcere, un momento preciso rappresentato dalla rivolta dei detenuti: non avrebbe avuto senso dare spazio ad una storia di un recupero. Ma ci sono anche altri personaggi oltre ai carcerati, come le guardie carcerarie. Abbiamo cercato di rappresentare vari tipi di guardie, dai più anziani, facenti parte della “vecchia” guardia, abituati a un largo uso della violenza, ai più giovani, più disposti a una gestione umana della prigione.

Durante la rivolta i ribelli rapiscono dei prigionieri dell’Eta. Che reazione c’è stata attorno a questo argomento in Spagna?

J. G.: Non c’è stata molta polemica riguardo a questo argomento, che effettivamente è delicato, ma ci sono state piuttosto delle reazioni positive da parte della gente che ha visto trattare l’argomento dei terroristi dell’Eta come un qualsiasi altro argomento. Secondo noi è positivo che sia stato rotto questo tabù, perché nel film questi personaggi vengono trattati come gli altri. Qualcuno all’inizio ci aveva proposto di eliminarli per evitare problemi, tuttavia abbiamo scelto di lasciarli perché volevamo rappresentare il carcere come un microcosmo della società, e questi personaggi sono presenti nella realtà spagnola.

Il film è stato a Toronto e ha riscosso molto successo. Ci sono state proposte di acquisto per farne il remake?

J. G.: Sì, in effetti ci sono state delle proposte, anche se non c’è nulla di certo. Questa è una cosa che da un lato mi gratifica, ma dall’altro non mi fa piacere. Non mi piace l’idea che questo film possa diventare un ennesimo film in stile americano. Io nel ruolo di Malamadre posso immaginare soltanto Luis Tosar, non riesco a vedere altri attori.

(Pubblicata il 14 aprile 2010 su recensito.net)

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